Voi mi odiate e io per dispetto vi amo tutti

42 anni della legge 180/78

La giornata di ieri, 13 maggio 2020, ha visto una importante ricorrenza: l’anniversario della legge 180/78, diffusamente conosciuta come “legge Basaglia”.

Oltre che per l’importanza in sé di questa rivoluzionaria legge, mi preme ricordare l’avvenimento per altre due ragioni: la mia formazione professionale che è partita proprio dalla folgorante passione per la psichiatria e il momento storico che stiamo vivendo.

La 180/78, che si esprimeva su “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, ha preceduto di qualche mese l’approvazione della legge 833/78 con la quale veniva istituito il Sistema Sanitario Nazionale, che ha disciplinato la presa in carico territoriale delle persone, comprese quelle con patologia psichiatrica, facendo confluire nel testo finale, tutti gli articoli che erano contenuti nella 180.

Il gruppo del quale Basaglia era uno dei rappresentanti quindi, ha anticipato un importante principio: la persona con patologia psichiatrica, non può e non deve essere relegata all’interno di istituzioni totali, come lo erano i manicomi, ma necessitano di una presa in carico globale, nella quale vengano riconosciute in primis nella loro dignità umana e nella loro sofferenza psichica.

Cosa ha a che fare tutto questo con il periodo di quarantena appena trascorso?

Mi vengono in mente principalmente due aspetti.

La sperimentazione dell’isolamento che si è incarnato nella nostra mente e nel nostro corpo in questi ultimi due mesi. Tutti abbiamo sperimentato la privazione della nostra libertà personale e abbiamo drammaticamente vissuto lo “spegnimento” temporaneo di parti della nostra identità: quella lavorativa, quella di figli o di genitori, etc. Un po’ ciò che accadeva alle persone classificate come folli, pazze, malate di una malattia che era necessario confinare in degli spazi grigi, lontani dalla società, spaventata di una contaminazione.

All’interno dei manicomi, non c’era quasi più distinzione tra curanti e “malati”, perché l’istituzione totale che segrega, toglie senso all’esperienza di vita di ciascuno.

L’altro aspetto è legato a ciò che l’isolamento ha scatenato nell’asse della salute mentale della popolazione. Paura, ansia, frustrazione, impotenza, sono solo alcuni degli aspetti che hanno caratterizzato questo periodo. A farne le spese le persone più fragili e più sole. Purtroppo, sebbene la domanda d’aiuto psicologico abbia avuto un’impennata in queste settimane (come comprovato dai report sui numeri di accessi al servizio di supporto psicologico attivato dal Ministero della Salute), rimane un tema caldo come la nostra società si prenda cura della salute mentale delle persone, non dando ancora spazio e accesso alle cure psicologiche e psicoterapeutiche a fasce più ampie di popolazione.

Chiudo con la mia esperienza professionale in ambito psichiatrico, raccontandovi alcune delle cose che ho imparato:

  • se le persone, tornano ad essere trattate come persone, sanno e possono ritrovare un loro posto nel mondo.
  • ci sono sofferenze e zone buie della propria esperienza di relazione e di vita che si devono trattare con un profondo rispetto ed essere maneggiate con calma e con cautela;
  • lavorare sulla riabilitazione significa restituire alle persone un’esperienza tridimensionale che parte dalla casa, passa per la relazione e si conclude con il lavoro;
  • ci vuole pazienza, perché se per tutta la vita sei trattato come un inabile, alla fine credi di esserlo;
  • la tenacia più grande ci vuole nel dialogo con le istituzioni, che troppo spesso tenendo la faccia inchiodata sulle carte, si sono dimenticate di buttare uno sguardo alle persone;
  • ultimo punto… come un mio maestro diceva “i pazzi so pazzi, mica so scemi”!

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